La donna della realtà globale. Moda e realtà a confronto.
“La moda non si deve subire, basta vestire le bambine come bamboline. Viva la libertà di essere quel che si vuole”. Mariagrazia Chiuri
Sono giorni che questa frase l’ho salvata sul cellulare. Perchè è bella e chiara e fiera. E’ femminista senza essere barricadera. E’ femminile e libertaria. E’ un grido di orgoglio di una donna per una donna. Lanciato all’apertura del nuovo archivio Dior Heritage nel cuore di Parigi. Stiamo parlando di tecnologia, estetica, comunicazione, ricerca. Di primo mondo nel senso più raffinato ed elevato per quanto riguarda l’immagine femminile.
E sono giorni che questa frase si scontra con tantissime altre notizie che invece mi lasciano amareggiata e sconcertata. Ancora spose bambine, costrette dalle famiglie a matrimoni programmati, abbandonate tra le braccia di asettici uomini che non le amano nè le rispettano, forzate del dovere coniugale dirette come frecciarossa in corsa verso uno stupro programmato, ripetuto, pianificato, giustificato. Senza possibilità di appello. Mi sono stupita di fronte alla notizia che in India i tribunali hanno confermato la sentenza con la quale una donna è stata costretta a lasciare il proprio marito – scelto per amore – per tornare sotto la volontà paterna e quindi a sposarsi in un matrimonio programmato. Incredibile. Allucinante. Ho dovuto rileggerlo. Sono stata due volte in India e ho constatato di persona quanto la condizione femminile sia degratata, al limite del tollerabile, al limite della schiavitù senza neppure il riconoscimento di uno status. Speravo che la modernità arrivasse, almeno attraverso l’applicazione delle leggi. Mi sbagliavo.
E non solo questo. Miss Perù che alla fase di presentazione delle finaliste cita i dati della violenza femminile in quel paese. Certo, dichiarazioni programmate e non volontà delle ragazze, ma mi lascia perplessa ancora una volta la forza di un messaggio simile, la necessità di comunicare in quel momento, in quel modo. Quante altre ancora taciute?
E ancora guardavo con mia figlia alcune immagini di donne di tutto il mondo che allattano. Moltissime ovviamente delle tribù indigene – come se allattare fosse solo per loro e non per noi donne, tutte intendo – e molte segnate da ferite. Che io so essere da taglio, da bastonature. Che io so essere subite nella quotidiana violenza domestica. Che si perpetra nello spazio e nel tempo. Taccio con mia figlia nella vana speranza di evitarle anche solo l’idea che l’uomo possa avere il diritto di picchiare una donna, matrattarla, ferirla, per il puro piacere di affermare la sua superiorità.
E poi la lunga stagione dei femminicidi italiani, ormai una lista talmente articolata da non trovarne neppure una fine. Oggi, qui, ora, in Italia, i nostri vicini di casa. Non parliamo di altro, parliamo di noi. Che uccidiamo per un no, per un amore negato, per un sentimento negativo. (Ma le mamme ve lo insegnano a perdere? Questo sarà un altro argomento …). Sfregiate con l’acido, massacrate, donne o famiglie intere. Quanta violenza, quanta impreparazione, quanta povertà intellettuale.
Allora dove si colloca la frase della Chiuri? In quale mondo? Come faccio a mettere insieme una immagine di donna che comprenda l’uno e l’altra? La testa china e la forza di affermarsi. La libertà e l’impossibilità di decidere alcunchè della propria vita, neppure i propri affetti.
So cosa racconterò a mia figlia, so che messaggio le sto già passando quando insieme scegliamo le magliette del mattino. So cosa voglio che cresca in lei.
Ma come mi piacerebbe che fosse realtà anche per tutte le altre bambine del mondo …